Nella notte fra sabato 29 e domenica 30 marzo si spostano le lancette un’ora avanti. Il passaggio è tra le due e le tre del mattino. Si usa un regime temporale diverso a cinque mesi di ora solare.
Tutto questo per guadagnare in luce del giorno effettivamente vissuto con relativo risparmio in termini di consumi energetici. Ma se la posta è così importante e dirimente, dati i tempi, perché non si addiviene a una riforma del tempo reale misurato metricamente?
L’ora legale è attribuita a Benjamin Franklin e si riferisce quindi al Settecento. In Italia è arrivata nel 1916. Ma dopo sospensioni e riprese durante la Seconda Guerra Mondiale fu ripresa nel 1965 e l’anno dopo istituzionalizzata ufficialmente tra maggio e settembre. Nel 1996 è diventata di sette mesi, assieme al resto d’Europa.
Ma si decise anche di anticipare questo passaggio in concomitanza a quattordici paesi nel mondo. Era il 1980. Da allora la Pasqua fu ritenuto un momento magico e produttivo di cambiamenti per affermare questa piccola riforma nella misurazione temporale. Ma il dibattito che si è creato ha guardato all’opportunità del risparmio economico in relazione al cambio delle abitudini sociali. Il risparmio è di settantacinque milioni, gli eventuali danni, invece, non sono calcolabili.
A ben guardare i risparmi sono risibili. L’anno scorso si sono attestati minori consumi, sì, ma quantizzati con 340 milioni di kWh. Si tratta di un valore pari al fabbisogno medio annuo di circa 130mila famiglie. In termini monetari il risparmio è di settantacinque milioni di euro. Ma anche sotto il punto di vista delle emissioni di CO2 in atmosfera si attesta a circa 160 mila tonnellate.