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Col dopo Tavarez ci si interroga sul futuro del comparto industriale italiano delle automobili. Una nota è certa. Non si può dire ‘ dopo di lui il diluvio ‘ emulando la famosa asserzione di Madame de Pompadour perché dopo Tavarez il diluvio già c’è stato e non si capisce cosa potrebbe accadere di peggio oltre lo smantellamento dell’Automotive nel nostro paese oppure la cancellazione totale dell’asset Stellantis per trovare la connessione con qualche altro colosso pronto ad assorbire tutta la brigata di un settore produttivo che fu glorioso.

Sul dopo Tavarez, scrive l’Ansa, si scatena il toto-nomi. Ed è questa una dimensione quasi consolatoria. Perché in continuità con quella che fu la Fiat pare debbano interessare a tutti i problemi della casa produttrice di automobili. E in effetti, si dirà, sono i problemi di tutti perché le sorti di questo fondamentale comparto industriale corrispondono agli interessi del sistema-paese.

In effetti il riscontro coi fatti materiali ci riporta alla connessione costante a un interesse personale, esclusivamente personale, in questi delicati passaggi della più importante casa automobilistica italiana. Gli italiani la guardavano con rispetto e ammirazione considerandola un po’ patrimonio culturale proprio, quando si doveva acquistare un’automobile la prima opzione andava sempre su un’italiana e su una Fiat. E invece si trattava sempre di affari di famiglia. La solita famiglia, la loro, non la nostra.

E così gli organi di informazione compiacenti continuano a dare lo stesso taglio nell’aggiornamento. Del resto il gruppo dispensa pubblicità ed ha una capacità distributiva che va ben oltre i giornali già di proprietà. Non è il nostro caso, però. Ed è una fortuna, quella della libertà, pur nelle evidenti ristrettezze di un’editoria limitata.

Nel frattempo, informa sempre l’Ansa, “si parla di una buonuscita di cento milioni di euro per Carlos Tavarez, l’amministratore delegato di Stellantis che ha chiuso il rapporto con il gruppo, in anticipo di un anno sui tempi previsti dal contratto che sarebbe scaduto nella primavera del 2026”.

C’era un tempo in cui il capitalismo e l’etica liberale comminata insieme davano delle regole generalissime, ma applicate e applicabili sempre, affinché il primo amministratore di una grande società non prendesse un compenso più di venticinque volte quello di un lavoratore comune dell’impresa. Sono tetti che sono stati superati da tempo e ci si chiede giustamente il perché. La richiesta di motivazione non può essere silenziata col fatto per cui si tratta di un’impresa privata e coi soldi da disporre provvede secondo proprie logiche non ingeribili nell’interesse pubblico.

Diventano interesse pubblico quando queste grandi imprese vanno avanti coi soldi dello Stato e più esattamente coi governi pronti a intervenire a sostegno per evitare lo scompaginamento sociale provocato da grandi licenziamenti.

Non solo. Ma un qualsiasi sistema di impresa non essendo gestito al fine di fare beneficienza dovrebbe spiegare a sé stesso il motivo per cui un solo dirigente possa ricevere emolumenti così grandi. La spiegazione semplice si rileva con la disponibilità di cassa da gestire per questo grande manager. E a cosa può servire avere tanti soldi a disposizione? Ad avere la capacità di essere maggiormente entrante e fortemente persuasivo nei confronti degli interlocutori politici a tutti i livelli con cui si trova ad avere a che fare. Ma si tratta di un’ipotesi.

Se ne trovi un’altra che non sia l’improbabile beneficienza a persona dai grandi meriti. Si trovi una ragione per cui una persona avente il merito di aver accompagnato a decozione un comparto di impresa già in crisi debba ricevere un premio così grande. Anche il liberismo più sfrenato senza etica è condannato a soccombere. Ed il mondo del libero mercato un’etica la costruisce per necessità altrimenti crolla in un attimo.

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